Oggi affronto un tema ostico, che lascia volutamente molte domande in sospeso e, se avessi più lettori, potrebbe aprire un dibattito magari ;-) .
Tempo fa padre Mario, francescano che seguiva il nostro oratorio quando ero piccola, ha pubblicato sul suo blog la “Lettera ai cercatori di Dio”.
“Frutto di un lavoro collegiale che ha coinvolto vescovi, teologi, pastoralisti, catecheti ed esperti nella comunicazione, la Lettera si rivolge ai “cercatori di Dio”, a tutti coloro, cioè, che sono alla ricerca del volto del Dio vivente”
L’ho letta subito, nonostante le quasi 60 pagg. poiché rientro nella categoria di chi “non crede, ma…”. Come diceva insomma Erri de Luca, una non credente e non certo un’atea.
La fastidiosa sensazione di trovarmi davanti alla solita lezioncina di catechismo non mi abbandona, ma ci sono alcuni punti che ritengo interessanti per chi, come me, cerca un confronto ed è alla continua ricerca.
Di Pasoliniana memoria è questo passo ad esempio:
“(…) La cultura moderna, non sapendo dare una risposta a queste sfide, cerca di nasconderle con l’ebbrezza del consumismo, del piacere, del divertimento, del non pensarci. In tal modo, però, si nega il significato profondo della debolezza e della vulnerabilità umane e se ne ignora sia il peso di sofferenza, sia il valore e la dignità: e questo rende interiormente aridi e induce a vivere in modo superficiale.
(…) L’esperienza della fragilità, del limite, della malattia e della morte può insegnarci alcune cose fondamentali. La prima è che non siamo eterni: non siamo in questo mondo per rimanerci per sempre; siamo pellegrini, di passaggio. La seconda è che non siamo onnipotenti: nonostante i progressi della scienza e della tecnica, la nostra vita non dipende solo da noi, la nostra fragilità è segno evidente del limite umano. Infine, l’esperienza della fragilità ci insegna che i beni più importanti sono la vita e l’amore: la malattia, ad esempio, ci costringe a mettere nel giusto ordine le cose che contano davvero.”
L’idea della fragilità umana come limite e definizione della giusta visuale del mondo e della vita, mi pare più che condivisibile, ed in qualche modo anche “sana”.
Aggiungerei, a postilla e completamento, una citazione di Pasolini, appunto:
“(…) L’edonismo del potere della società consumistica ha disabituato di colpo, in neanche un decennio, gli italiani alla rassegnazione, all’idea del sacrificio ecc.: gli italiani non sono più disposti – radicalmente – ad abbandonare quel tanto di comodità e di benessere (sia pur miserabile) che hanno in qualche modo raggiunto.”
(28 Marzo 1974 sul “Mondo”)
Quanto sopra fotografa, quanto meno, la tendenza odierna di una società allo sbando, portata all’eccesso e al soffermarsi sull’effimero.
Più interessante, in ambito di ricerca di fede, quanto detto più avanti nella Lettera:
“(…) C’è chi si è dichiarato “ateo” per amore di Dio, per giustificare la sua assenza e il suo silenzio davanti al dolore innocente. “
Questo concetto particolare dell’ateismo è ripreso anche più avanti:
“(…)In questa lotta con l’invisibile il credente vive la sua più alta prossimità all’inquieto cercatore di Dio: si potrebbe perfino dire che il credente è un ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere.”
Trovo molto bella questa comunanza di ateismo e fede.
Si prosegue:
“(…) Tutti abbiamo bisogno di un orizzonte di senso, per dire qualcosa di vero sul nostro futuro”.
Qui mi casca il solito asino: è vero, ma questo bisogno non giustifica l’esistenza di Dio.
Dio, in questo senso, rimane una risposta arbitraria di comodo insomma.
Più sensato ricordare che “(…) Oggi abbiamo più che mai bisogno della testimonianza di profeti disarmati”
Il valore del testimoniare attraverso la propria vita ed azioni il proprio credo sia indiscutibile, ma richiede anche una coerenza rara.
Il punto focale della questione rimane, ovviamente la fede.
“(…) Nel profondo della domanda di senso e di speranza, qualcosa ci orienta verso il mistero (...).”
Questo orientamento lo comprendo, ma si approda inevitabilmente al “mistero” e lì, per forza, ci vuole FEDE. Ma la fede si può “imparare”?
Non è una GRAZIA che si ha o meno?
La lettera prosegue con una bella intuizione, a mio avviso:
“(…) Vivere con consapevolezza e responsabilità richiede già un grande atto di fede.
Aumentare questa fede, spingerla oltre se stessa vuol dire aprirsi a Colui che ci chiama dal profondo di ciò che siamo e che ha fatto risuonare la sua voce nel tempo per ognuno di noi.
(…) nasce parimenti il sì a una fede interrogante, a una ricerca onesta (…)
Se c’è una differenza da marcare, allora, non sarà forse tanto quella tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti”
Come dicevo ieri l'interrogazione costante, la ricerca incessante, lo studio, sono tutti fattori determinanti nella crescita e formazione dell'individuo e del pensiero critico personale.
Questo riguarda la fede, come la vita di tutti i giorni.
Perchè è proprio vero che la vera differenza sta fra pensanti e non pensanti, fra automi e cellule impazzite. Ma a me i pazzi, son sempre piaciuti.
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1 commento:
Bella forte la frase finale.
Tra pensanti e non pensanti.
E lo dice una che è atea, ma che crede fortemente che non è il credo religioso a significare qualcosa, che in una persona bisogna cercare ben altro e ben oltre... non dio, ma la vera essenza di ciascuno di noi...
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