Giovedì sera ho disertato l'inaugurazione di un negozio e mi sono fiondata allo Spazio Oberdan per una mostra sulle Americhe Latine curata da Philippe Daverio.
"LAS AMERICAS LATINAS. Las fatigas del querer" è una piccola mostra un po' di nicchia direi, allestita in uno spazio insolito, dove di solito vado solo al cinema, ma che ha tanto da offrire.
Ci sono capitata, lo ammetto, principalmente per lui, Daverio, un dandy meraviglioso che seguo da anni, nella sua trasmissione domenicale sulla Rai.
Personaggio a volte criticato, certo un po' sopra le righe, ma che comunque rispetto e capace di parlare d'arte senza annoiare, ma anche senza trattare lo spettatore come uno sprovveduto.
L'altra sera s'è presentato un po' in ritardo davanti ad una vera folla di curiosi.
Io me ne stavo un po' in disparte, come faccio sempre quando mi muovo da sola e la mia timidezza mi fa sentire totalmente estranea al momento. Intorno signore dalle mise improbabili, ragazze dalla classe innata e giovani alternative accompagnate da distinti uomini in giacca e cravatta o ragazzi più informali, in netta minoranza.
Daverio dovrebbe fare da cicerone, essendo il curatore, ma lo spazio è davvero troppo angusto e tiene semplicemente un'introduzione alla mostra per contestualizzarla e spiegarla prima di farcela girare tranquillamente per i fatti nostri.
L'eloquio è arguto, ma mai pedante; gli occhi vispi ed acuti si soffermano sui visi degli astanti, il suo entusiasmo è contagioso.
L'arte per Daverio è un linguaggio universale da scoprire e portare alle masse.
Non crede nelle didascalie accanto alle opere: l'arte è sensazione, soprattutto quando proviene da un mondo tanto intricato ed inesplicabile come le Americhe Latine, plurale d'obbligo per sottolinearne le differenze di fondo.
Spiega come abbiano scelto le opere, ricorda amici di laggiù ormai scomparsi, tenta di spiegare come l'influenza di vari ordini religiosi abbia modellato le popolazioni autoctone.
E' tutto inetressante e meraviglioso ed io ascolto avidamente ogni parola.
Mentre passeggiamo fra le opere viene attorniato dal gruppo ed inizia a conversare, a rispondere alle domande con seplicità disarmante, senza mai salire in cattedra.
A suo avviso "Le culture vincenti sono quelle capaci di assorbire: i vincenti sono sempre i sincretisti" e difatti i paesi delle Americhe Latine sono esattamente questo: culture fortemente multietniche eppure dall'identità radicata e chiara.
Accanto a lui la sua assistente, Elena Agudio (mi pare), si sofferma su alcuni quadri, li spiega, si appassiona.
Alcune opere mi colpiscono in particolare.
Un' opera di Santoro, "La piedad. Eva Perón devora las entrañas del CheGuevara" raffigura Evita intenta a divorare le interiora del Che in un simbolico tentativo di divenire più socialista e rivoluzionaria.
"Ruína de charque Cordovil" di Adriana Varejão è la riproduzione di una parete, fatta di legno dipinto, decorata dalle azulejos portoghesi in ceramica; "(...) la sezione del muro mostra organi umani sezionati, intrisi di sangue. Attraverso questo lavoro l’artista vuole far riflettere su quanto la cultura portoghese, arrivata in Brasile per costruire mura e civiltà, in realtà abbia portato con la colonizzazione sangue, massacri e violenza."
Infine "Adriana Bustos, artista argentina di Cordóba, con le opere Antropología de la Mula, 2008, Fátima y suilusión, 2008 e Jackie y la ilusión de Fátima, 2008 propone un confronto fra le “mule” del 1600 e le “mule”di oggi. Nella prima opera inizialmente traccia le rotte per il trasporto percorse nel secolo XVI dalle mule che partivano dall’America Latina per portare in Europa le materie prime, poi le confronta con quelle delle “mule”di oggi, donne che ingoiano capsule di cocaina per poterla trasportare e spacciare in Europa."
Tutte opere di forte impatto che rimangono nel fondo degli occhi.
Meno male che c'è chi è ancora curioso e cerca di fornire sempre nuovi stimoli!
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1 commento:
Hai fatto benissimo a disertare l'inaugurazione del negozio, se quello di cui parli in questo post ne è stato il risultato...!!
Penso anch'io che l'arte sia un linguaggio universale, molto più diretto ed esplicito delle parole scritte, che lascia spazio d'interpretazione e d'identificazione a ciascuno di noi... Abolire le "etichette" mi sembra quasi d'obbligo quando si parla di arte... perchè solo la diretta osservazione ed elaborazione personale permette di acquisire una diretta empatia con l'opera... ed è quello che ci tocca più nel profondo che rimane veramente dentro di noi.
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